“Scenario immenso di monti, in un alternarsi suggestivo di albe e tramonti spettacolari” - Carlo Graziano
Nella chiesa parrocchiale di Bonito è esposta una statua raffigurante un prelato, col pastorale e veste vescovile. E' San Bonito.
Molto tempo è passato per poter stabilire con certezza come e perché questo santo francese sia venuto a proteggere la famiglia Bonito e questo paese dell’Irpinia che dalla famiglia ha preso il nome. Visse nel settimo secolo, quando iniziava la scesa dei Carolingi con Pipino di Heristal. Fu vescovo di Clermont e fu circondato da vasta stima se poco dopo la morte fu subito levato sugli altari. Il suo culto si diffuse rapidamente, dodici paesi francesi presero il suo nome, San Bonet nel dipartimento di Gap, San Bonet de Joux, San Bonet la riviere, San Bonet le chateaux, ed altri; dalla Francia il culto si estese in Italia, ed una famiglia, di origine romana ma di residenza amalfitana, gli eresse cappelle ad Amalfi e Ravello. Il nome passò poi ai componenti di questa famiglia, e dai Bonito al loro castello ed al casale che si era formato intorno ad esso, in una zona già frequentata in epoca romana, dove era sorto uno dei “pagi” dell’Irpinia.
I Romani infatti si spinsero fin qui, il loro esercito e il console Marcello dispose i suoi reparti tra la valle e la collina, nella località che ha conservato il suo nome, “Marciello”, così come la contrada “lucefurio” mantiene il nome, sia pure deformato di Lucio Furio che eresse un fortino. Per la distruzione di Aeclanum, ordinata da Silla dopo la guerra sociale, le popolazioni locali dovettero subire gli espropri e il passaggio della terra ai “coloni”. Anche un’altra denominazione ricorda i romani, la contrada “vetecale”, perché “vectical”, che significava tributo, imposta, tassa, dette il nome al posto dove si esigevano. Lenta fu la ripresa dopo la distruzione, ma nel primo secolo d.C. già si rifacevano case e strade e si costruiva un ponte sulla strada per Benevento, che si chiamerà Ponte Rotto, dopo essere stato chiamato Ponte Appiano. Quando passarono gruppi di Goti, gli eserciti bizantini di Belisario e di Narsete rinnovarono le devastazioni per scacciarli. Anche questi passaggi hanno lasciato il nome, perché la località “Campo dei Greci” ricorda appunto un accampamento dei bizantini.
Dopo Goti e Bizantini, il territorio passò in mano ai Longobardi, che posero salde radici, lo amministrarono per mezzo dei gastaldi, e distesero una catena di rocche. Una di queste rocche fu il “castrum Boneti”, a guardia delle valli dell’Ufita e del Calore. Nel “castrum” furono sistemati i guerrieri e gli abitanti della zona furono sistemati nelle “condome”, complessi abitativi per coltivatori e loro famiglie. A termine dell’epoca longobarda vennero i Normanni, con Roberto il Guiscardo; Ariano fu presa, e un Gerardo ebbe la signoria non solo di Ariano ma anche dei luoghi vicini, tra cui Bonito. Guglielmo Gesualdo, normanno, costruì sui resti del castrum longobardo il castello di Bonito, luogo di rifugio e di raccolta delle genti sparsi per le condome, con le quattro torri massicce, un’altra torre avanzata verso l’Ufita, un ponte levatoio, due entrate opposte, una guardiola, un passaggio segreto verso S. Maria della Valle. Guglielmo Gesualdo andava costituendo il suo grosso feudo, da Gesualdo a Mirabella e da Frigento a Paternopoli, ricco di terre e di suffeudi, che trasmise al figlio Elia. Questi, suddito prima di Enrico VI, poi di Carlo d’Angiò, ebbe come suffeudatario Sergio Bonito, che aveva sposato Sighelgaita Capuano e col matrimonio aveva meglio consolidato il dominio.
Poteva così provvedere all’erezione e al mantenimento del monastero di S. Maria della Valle sulla sponda dell’Ufita. La potenza della famiglia crebbe maggiormente quando Oddo Bonito sposò Maria Gesualdo, la figlia del feudatario, e da suffeudatario divenne Signore di Bonito. Il re di Napoli Ladislao privò del feudo i Signori di Bonito nel 1393, e questi se ne tornarono nella costiera, tra Amalfi e Ravello. Nel Duomo di Amalfi la loro cappella si fregia dell’iscrizione “Hoc opus fieri fecerunt Antonius de Bonito et Rinaldus eius filius”. La distruzione cagionata dal terremoto del 1456 provocò l’intervento restauratore di Gaspare d’Aquino, Signore della vicina Grottaminarda, che riparò il castello e venne ad abitarvi con la moglie. Così la storia di Bonito si confonde con quella di Grottaminarda.
Dopo i d’Aquino, Bonito passa ai Pisanello, per acquisto fattone da Giovannangelo Pisanello, a metà del Cinquecento. Giovannangelo III Pisanello, invece, sembra sia stato protagonista di una storia di sesso e violenza. Per godere i favori di una bella bonitese avrebbe allontanato il marito, facendolo arruolare sotto il Duca d’Arcos. Il signorotto avrebbe goduto i favori della donna, se ne sarebbe stancato, e se ne sarebbe disfatto (dissero) facendola precipitare in un trabocchetto. Le vicende della guerra portarono il marito all’assedio di Ariano. Bonito era vicino, e il marito riuscì a vendicare l’offesa uccidendo il Signore. Il racconto si colorisce di particolari macabri perché si diceva che ne avesse spinto a calci la testa, come un pallone, da Ariano a Bonito. Ma c’è un’altra versione (forse più probabile): l’uomo non sarebbe stato costretto a cedere la moglie al Signore, ma per essere affrancato dal servizio militare gli avrebbe corrisposto il donativo di tre galline.
I Pisanello avevano acquisito il titolo di Marchesi di Bonito, ma poi vendettero feudo e titolo ad un discendente dei Bonito, Giulio Cesare. Costui fu Presidente della Regia Camera della Sommaria, da cui ottenne il consenso a cambiare il nome del feudo di Morrone in Isola di Morrone, forse perché un suo zio omonimo fu detto Duca dell’Isola per aver acquistato molte terre nei pressi di Aversa, in una località chiamata l’Isola. Così ritornarono i Bonito, che furono Marchesi di Bonito e Duchi dell’Isola di Morrone. Di Giulio Cesare ci resta un bel medaglione in marmo, che lo raffigura con abiti tipicamente spagnoli, che si trovava nella Chiesa di S. Maria della Valle, fino al completo abbandono della stessa, in seguito al movimento franoso che interessò la zona negli anni ’70. Ora, insieme al monumento della sorella Delia, si trova custodito nella sagrestia della Chiesa Parrocchiale dell'Assunta.
Morto D. Andrea Bonito nel 1757 senza eredi, il feudo passò al fisco e, per effetto di una permuta con Carlo III, fu affidato a Marcantonio Garofalo con il titolo di Duca. Questa famiglia si estinse con Giorgio Garofalo, morto nel 1811 e feudo e titolo ricaddero nuovamente nel dominio della Corona. Nel contempo, era passata per Bonito la bufera del 1799, con la reazione, i saccheggi, ed i processi. Il governo dei napoleonidi segnò abolizione della feudalità, la quotizzazione dei patrimoni, il passaggio delle terre nelle mani dei nuovi possessori.
Ci furono anche a Bonito contese fra i vecchi proprietari e i nuovi possessori, e il territorio del Bosco venne suddiviso in piccole quote. I Carbonari di Bonito tennero rapporti con i Carbonari di Mirabella e il 24 luglio 1820, tre giorni prima della marcia di Morelli e Silvati verso Napoli, Cannaviello scrive che “Felice Miletti girò armato per le strade di Bonito, insignito di decorazioni, obbligando i cittadini a riconoscere la sua autorità; il giorno 5 accompagnò il Sindaco ad inalberare la Bandiera sul campanile dell’Assunta, cinto della fascia tricolore, con in mano una piccola accetta, distintivo della Carboneria”. Passando al periodo dell’Unità, la vittoria di Garibaldi fu preceduta da disordini, e leggendo un manoscritto di Enrico Cassitto sappiamo che: “transitando alcuni patrioti per il villaggio di Morroni, Rosina, sorella di Andrea Grieco, diè l’allarme e suonò le campane di S. Maria delle Nevi e quei poveri disgraziati che erano di Grieci, li inseguirono e quindi accerchiarono, ammazzandone uno e percuotendone fortemente gli altri che poi legarono e rinchiusero in una stalla della famiglia Grieco. Sul cadavere dell’ucciso inveì la popolazione e Rosina Grieco, a colpi di spiedo, lo seviziò”. I disordini continuarono, ci fu la rimozione del Sindaco, dr. Nicola Miletti, e di funzionari, ci furono tumulti, ci fu l’intervento di De Sanctis, Segretario generale della provincia.
Gran prestigio hanno dato a Bonito i componenti della famiglia Cassitto, Patrizi di Ravello. Il capostipite, giunto a Bonito intorno al 1735, fu Romualdo Cassitto che venne da Alberona, come affittuario ed amministratore del feudo. Sposò Saveria Miletti, figlia di un notabile del paese, dr. fisico Basilio. Romualdo fu giureconsulto ed appassionato archeologo, e dal Re Carlo III fu nominato Direttore degli scavi di Eclano. Il figlio Francesco Paolo, avvocato, fu attivo carbonaro e amico del generale Pepe. Un altro figlio, Giovanni Antonio, fu anch’egli archeologo, oltre che letterato e giurista. Il terzo figlio, Luigi Vincenzo, domenicano, fu teologo, oratore sacro, molto stimato da Pio VII. Federico fu consigliere di Prefettura ad Avellino, sottintendente di Lagonegro, Cittaducale ed Ariano, fondatore dell’Accademia Agraria di Avellino e poi per anni Segretario della Reale Società Economica del Principato Ultra, autore di molteplici opere, tra cui una sulla flora irpina. Ebbe ad ospitare l’archeologo Teodoro Mommsen quando venne a Bonito per studiare ed interpretare le molte lapidi rinvenute; Mommsen lo dice “homo sanctissimus, ab omni fallacia longe”, nel suo “Codex Inscriptionum latinarum”. Figlio di Giovanni Antonio fu Romualdo Maria, anch’egli carbonaro, assiduo di Gioacchino Murat, e ispettore degli scavi di Eclano.
Il palazzo dei Cassitto, estinta la famiglia, fu acquistata nel 1898 dall’amministrazione comunale e adibita a sede del Comune. La raccolta dei reperti archeologici iniziata dal primo Romualdo fu sempre continuata ed arricchita e costituì il Museo Cassitto, poi malauguratamente disperso. Questa dispersione, questa scomparsa, questo saccheggio sono stati un delitto contro la cultura, contro la memoria dei Cassitto, contro l’Irpinia. Non ci resta che leggere la descrizione fatta da Carmine Modestino nel 1840: marmi, iscrizioni, capitelli di colonne, cippi sepolcrali, un’arca bacchica con un serpente che esce dalla mitica cesta, un busto di Vespasiano, il bellissimo Castore col pileo in testa, armature in bronzo, elmi, lance, un fauno, un Apollo somigliantissimo a quello dissotterrato ad Eclano, vasi italo-greci, pietre dure incise tra cui un Bacco col tirso e la coppa, e tanti altri oggetti. Questa specie di inventario è riprodotto nel volume del Graziano. Se i reperti sono scomparsi, i torrioni angolari del castello sono ancora qui a ricordare secoli di storia e di lavoro. E sono qui querce, castagni e vigne, frutteti ed uliveti, viuzze in salita fiancheggiate da scale esterne; sono ancora qui, non sono state disperse, le icone con effigi della Madonna nera, fatta venire dall’oriente e conservata nella chiesa dell’Annunciazione e nella Chiesa di S.Giuseppe
Passare dai reperti archeologici studiati dal Mommsen ai prodotti artigianali e industriali come le scarpe non è agevole, ma poiché anche le scarpe quando vengono fuori da un’azienda che ha raggiunto fama internazionale, sono il prodotto di un lavoro intelligente che ha dato notorietà a chi ha fondata l’azienda, è opportuno ricordare l’uomo e l’azienda, Salvatore Ferragamo, nativo di Bonito. Le tre fabbriche e la catena di eleganti negozi in città d’Italia, d’Europa e d’America, raccomandano il suo nome. Il lavoro e la genialità sono l’omaggio al paese natale.
Un Bonitese che conquistò larga fama in campo musicale, nella seconda metà dell’Ottocento, fu Crescenzo Buongiorno, autore di opere liriche e di molte operette, rappresentate anche all’estero, nonché virtuoso concertista. Fra l’altro, eseguì un concerto nel Conservatorio di San Pietro a Maiella di Napoli in onore della Regina Margherita. Il profilo di Bonito va completato con la storia di S. Crescenzo. Il Padre Luigi Vincenzo Cassitto ebbe in dono il corpo di San Crescenzo, nell’anno 1800, prelevato dalle catacombe di Ciriaca a San Lorenzo fuori le mura, dove fino ad allora era stato custodito.
Sul loculo c’era una targa con la scritta “Crescentius in pace, qui vixit ann. XI, mater cum metu posuit”. Non si sa molto di questo santo fanciullo, neppure il Martirologio Romano abbonda di notizie. Si sa che era figlio di Eutimio, che fu travolto dalla persecuzione di Diocleziano, che fu inquisito dal giudice Turpilio, e che morì il 14 settembre nell’anno della persecuzione, del 303. L’accanimento dell’imperatore era tutt’uno con la religione pagana, ma il monoteismo cristiano metteva in pericolo il culto di Roma. Perciò si imbastirono processi, si sottoposero a tortura i cristiani per farli abiurare e restituirli al paganesimo, si condannarono i più ostinati e irriducibili. Crescenzo fu uno di questi; resistette all’interrogatorio, si mantenne saldo nella fede, e fu ucciso, colpito da una spada, sulla via Salaria a Roma; fu sepolto nella catacomba di Ciriaca sotto il segno cristiano e santificato dai compagni di fede. Luigi Vincenzo Cassitto donò il corpo di San Crescenzo all’Arciconfraternita della Buona Morte, e questa alla chiesa di Bonito.
Il precedente del Cassitto fu contagioso, perché dopo qualche anno Don Francesco di Lucia ottenne da Papa Pio VII il corpo di Santa Filomena per Mugnano, e dopo di lui altri ottennero ancora sacre spoglie e le diffusero nei paesi dell’Irpinia. Oggi, un’urna rivestita d’oro zecchino custodisce le spoglie di San Crescenzo nella Chiesa Madre. Nella “Maestà” della Sala del Mappamondo del Palazzo di Siena è raffigurato un San Crescenzo, ma è in abito vescovile, e pertanto non è da confondere con l’undicenne San Crescenzo di Bonito.