Chiesa Parrocchiale dell’Assunta

Chiesa Parrocchiale

Immagine principale

Descrizione

La chiesa attuale risale al 2 maggio 1969, quando fu riaperta al culto, dopo il terremoto del 21 agosto 1962. All’interno si conservano pregiate opere d’arte come il  quadro dell’Annunciazione,  il quadro della Madonna della Candelora di José Rodriguez della città di Oliva-Fuerteventura, la statua della Divina Pastora, il busto di Giulio Cesare Bonito e si venerano una reliquia della Santa Spina ed il corpo di San Crescenzo Martire.

La fede profonda e sentita dei Bonitesi nel mistero del Verbo Incarnato è storicamente documentata fin dal 1500. Troviamo infatti nella Visita Pastorale del 10 maggio 1517 una chiara menzione di una chiesa dell’Annunciazione, situata fuori le mura del castello (“extra moenia dicti castri Boneti”) e, nella Visita Pastorale del 13 aprile 1573, la descrizione di una cappella dell’Annunciazione, situata nell’ala sinistra della chiesa parrocchiale dell’Assunzione “intra moenia” (= fra le mura del castello), e la citazione di quest’iscrizione scolpita sull’architrave della porta maggiore:

AVE VERBUM INCARNATUM
A.D.1565

In questa stessa Visita Pastorale si puntualizza inoltre che, nella chiesa dell’Annunciazione, l’altare maggiore ha un’icona dello stesso nome, nella cappella dell’Annunciazione della chiesa parrocchiale saltuariamente si celebra la Messa per devozione dei fedeli e, nell’ala destra della chiesa rurale di Santa Maria della Valle (“in nemore”, cioè nel bosco) v’è la cappella dell’Annunciazione, fondata dal signore della terra Claudio Pisanello, con icona e paramenti sacri.
Nel 1581 la chiesa dell’Annunciazione divenne parrocchia perchè nell’antica chiesa parrocchiale dell’Assunzione “non ci capevano le genti per essere aumentato il popolo di detta terra” (Dagli Atti della Visita Pastorale del 23 giugno 1585).
Successivamente, il 14 agosto 1714, avvenne questo scambio: alla nuova chiesa parrocchiale, ricostruita dopo il terremoto del 1702, fu dato il titolo dell’Assunzione, ed alla chiesa dell’Assunzione quello dell’Annunciazione.
Nella Visita Pastorale del 10 luglio 1614 si accenna per la prima volta ad una Confraternita laicale dell’Annunciazione, all’indulgenza che si acquista all’altare maggiore della chiesa omonima, ed al portale in muratura nel cui arco “è dipinto il mistero dell’Annunciazione della Beata Maria Vergine”.
Questa raffigurazione del mistero dell’Incarnazione sul portale di una chiesa già dedicata all’Annunciazione, sembrerebbe un doppione inutile; in realtà essa nasconde un profondo significato teologico.
Nelle chiese di rito orientale una parete, detta “iconostasi” perchè coperta da iconi, divide rigorosamente il presbiterio, luogo riservato al clero, dal luogo dove si congregano i fedeli. Al centro di questa parete si apre una porta che dà direttamente sull’altare maggiore. Questa porta detta “regia” o “del Paradiso” deve sempre portare dipinta la scena dell’Annunciazione, perchè questa raffigurazione in posizione privilegiata, indica la centralità del mistero dell’Incarnazione e l’inizio della salvezza cristiana.
Ed in posizione privilegiata, nel catino absidale della chiesa dell’Annunciazione (dal 1700 chiamata anche “dell’Oratorio”), troneggiava, fin dal 1738, questo magnifico dipinto. Il terremoto del 21 agosto 1962 danneggiò l’edificio sacro, che poi fu abbattuto, ed il quadro fu portato nella Chiesa Madre, dove ora si venera.
Osservando quest’opera, mi vien subito da pensare che essa sia stata eseguita secondo ordini ben precisi impartiti dai committenti bonitesi, i quali vollero farvi inserire S. Bonito, da poco proclamato Patrono Principale del paese, e S. Caterina d’Alessandria, al cui nome era dedicata una chiesetta in località “Vigna della Corte” ed un’immagine nella cappella di S.Maria di Loreto nell’antica chiesa parrocchiale. (Quest’ultima testimonianza è data dall’abate Marco Antonio De Canditiis nella Visita pastorale del 23 agosto 1592).
Non mi convince molto l’opinione di chi ritiene che si tratti non di S.Bonito, ma di S.Gennaro; sia perchè questo martire, patrono di Napoli, non ha mai avuto un culto a Bonito, sia perchè in questa tela è rappresentato senza i segni classici del suo martirio: la palma e le ampolle del sangue.
Il quadro è un olio su tela, inserito in una ricca cornice dorata, dalle misure m.3 x 2. Il pittore ignoto, probabilmente della bottega napoletana, raggiunge notevoli effetti narrativi sottolineati da una cromìa sobria e sommessa, anche se con assenza di pur discreti tocchi dell’oro.
Il dipinto è una rivelazione: graziosi angioletti rimuovono un velo ed offrono alla nostra contemplazione una scena da incanto.
In primo piano, in basso a sinistra, appare S. Bonito, vestito in abiti pontificali, con lo sguardo rapito verso la Vergine, per la quale nutriva una tenerissima devozione, premiata, secondo la tradizione, con il dono di una pianeta di seta verde con galloni d’oro.
A destra si contrappone la santa patrona dei filosofi, Caterina d’Alessandria, elegantemente vestita perchè di nobile famiglia reale, con una tunica dai bianchi polsini arricciati, con un manto rosso che l’avvolge intorno, con il capo redimito di aurea corona, e le braccia che stringono i segni del martirio: una lunga palma verde ed una ruota munita di punte.
Tra i due santi si annida una densa ombra, in cui a stento s’intravedono due piccole figure emergenti seminude dalle fiamme.
Un bagliore investe le due figure principali e si concentra sui loro volti trasfigurati. L’angelo sembra fremere sotto il balenare della luce: le gambe nude emergono saltellanti dalla bianca tunica semidiscinta, il mantello esiguo fascia il corpo con un giro guizzante dal braccio destro al ginocchio sinistro segnatamente rialzato. La mano destra, allungata nella penombra, mostra tra le dita distese il simbolo della verginità della fanciulla eletta, mentre imperioso e deciso erompe, dalla corta manica rimboccata, il braccio sinistro completamente sollevato verso l’alto, con le dita chiuse, ma con l’indice michelangiolescamente disteso, come ad incontrare l’Altissimo.
Col segno danzante dell’angelo contrasta il raccoglimento intenso della Vergine, assorta in preghiera: capo semicoperto da un velo e quasi completamente poggiato sulla spalla destra, volto diafano, occhi socchiusi, braccia intrecciate sul petto, busto lievemente reclinato in avanti a lambire l’inginocchiatoio, avvolto nell’ombra del colore smorzato.
La compostezza della figura orante, tutta soffusa di sereno equilibrio e pacata eleganza, trova suggello nel ricadere del manto azzurro, eseguito con solchi profondi e ricchi di chiaroscuro.

Conferiscono levità alla scena le nuvolette in movimento ed i piedi nascosti da questo manto solenne, su cui si accendono i toni del rosso usato per la tunica.

Cinge il capo della Vergine un’aureola di luce che, spargendosi intorno, accentua la spiritualità dell’angelico messaggio.

La luce, accolta con docilità dall’umile tela, si fa colore. La Parola, ricevuta con fede dalla giovane donna, si fa carne: ET VERBUM CARO FACTUM EST, ET HABITAVIT IN NOBIS…DEUM DE DEO, LUMEN DE LUMINE, DEUM VERUM DE DEO VERO. (= E IL VERBO SI FECE CARNE ED ABITO’ FRA NOI… DIO DA DIO, LUCE DA LUCE, DIO VERO DA DIO VERO).

 

La Madonna della Candelora
Jose’ Rodriguez della citta’ di Oliva – Fuerteventura 1742

IL QUADRO 

Questa tela intitolata Nuestra Señora de la Candelaria (= Nostra Signora della Candelora) proviene dall’isola di Tenerife, esattamente da Candelaria, una graziosa cittadina che sorse e prese il nome dalla Vergine che colà apparve.

Andrea Bonito, fratello di Domenico e figlio di Giulio Cesare, era maresciallo di Campo del re Carlo III e Comandante Generale dell’isola di Tenerife, con sede a Porto della (Santa) Croce. A Candelaria operava attivamente il pittore Josè Rodriguez, originario della città di Oliva della vicina isola di Fuerteventura, il quale aveva dipinto per il convento dei Domenicani i quadri di S. Domenico, Santa Caterina da Siena e San Pietro Martire. A questo valente artista Andrea Bonito commissionò nel 1742 una copia del quadro della Candelaria che si venerava in quel convento domenicano per portarla a Bonito, dove era duca suo fratello Domenico (+ 19 gennaio 1753). Le notizie brevi ma essenziali si leggono nel cartiglio collocato alla base del quadro.

Retrato de la MilagrosÍsima Imagen de Maria SS.ma M.e de Diòs, que con el titulo: De Candelaria se venera en el R. Religioso Conv.to de PP.Predicad.res en el Lugar del mismo nombre de Candelaria, en la fortunada Isla de Thenerife, una de las Canarias las que tienen por su Patrona tan Prodigiosa Imagen. Jos. Rodr. Oliva faciebat. Anno 1742. (Traduzione: Ritratto della miracolosissima immagine di Maria Santissima, Madre di Dio, la quale, con il titolo di Candelaria, si venera nel reverendo religioso convento dei Padri Predicatori nel luogo dallo stesso nome di Candelaria, nell’isola fortunata di Tenerife, una delle Canarie, quelle che hanno per propria patrona un’immagine così prodigiosa. Josè RodrÍguez della città di Oliva dipinse nell’anno 1742).

Il 19 aprile 1742, con un atto del notaio Raimondo Collocola di Napoli, Andrea Bonito fece costruire nella chiesa parrocchiale una cappella dedicata alla Candelora e successivamente nel 1753 una cappellania con lo stesso titolo, vale a dire un legato o donazione con l’obbligo della celebrazione di S. Messe. Quest’ultimo documento recita così :”Nell’anno 1753 con pubblico istrumento de’ cinque novembre per gli atti del notar D. Francesco Rossi di Mirabella l’Eccellentissimo Duca di Bonito D. Andrea Bonito, Ispettore Generale delle Regali Truppe del Re Carlo III, volendo mettere in esecuzione l’ultima testata volontà di suo padre D. Giulio Cesare Bonito, Presidente della Regia Camera e Duca dell’Isola, fondò una cappellania sotto il titolo di S. Maria della Candelaia come era la volontà del Padre D. Giulio Cesare, e dotò questa cappellania di annui ducati 41,19, ch’esso D. Andrea possedeva sopra una partita de’ Fiscali sopra la Terra di Bonito, Isola di Morroni e Città d’Ariano, e volle che si fusse celebrata una messa al giorno nell’altare della Candelaia e per elemosina di detta messa fissò lo stipendio di ducati 36, cioè di un carlino l’una e gli altri cinque e grana 19 da servire per cera e mantenimento dell’altare(..)”.

 

Nella Visita Pastorale del 26 aprile 1763 i rappresentanti vescovili Mongelli e Blundo visitano l’altare della Candelora, situato “in cornu Evangelii”, cioè sulla parete sinistra della chiesa e, sul lato opposto, l’altare di S. Bonito, “protettore di questa Terra”.

Il quadro della Candelora si può descrivere così:

Domina la tela, in forma di triangolo, un paludamento sacerdotale che, lasciando ampio spazio alla parte anteriore della veste ben pieghettata e sapientemente divisa dai suoi colori luminosi, dà solenne copertura al capo, alle spalle ed ai piedi della Madre di Dio. Si avverte subito un chiaro richiamo al piviale romano, cioè a quella veste liturgica usata nelle solennità, aperta davanti e lunga fino ai piedi, a modo di grande mantello; ma si sente anche una vaga ma penetrante nostalgìa per il kalyptra delle icone greco-bizantine, cioè per quel velo che, coprendo il capo e le spalle, scende fino alle ginocchia. Il piviale romano non copre il capo, ma si estende fino ai piedi, mentre il kalyptra greco copre sì il capo, ma si ferma alle ginocchia, senza scendere fino ai piedi. Da questo singolare vestimento, in cui armoniosamente si fondono la liturgia greca e quella romana, fuoriescono il volto esiguo della Vergine, messo in risalto da una cuffietta trapuntata torno torno con rosette stilizzate, e le mani delicate con i polsini inamidati, evidenziati da un ricamo circolare di colore celeste, il colore della Vergine. Con la mano destra la Madre assicura al petto il Bambino, semiavvolto in una piccola coltre pure celeste, sottoposta ad un panno dipinto con grande valentìa; mentre con la sinistra regge un lungo candeliere riccamente ornato, su cui s’innesta una minuscola candela, abbellita, al centro, da una cesellatura simile a quelle del candeliere stesso. Un cordoncino celeste tiene fermi in alto i due lembi del sacro manto, mentre un altro scende dal lembo destro e, curvandosi, raggiunge, verso il centro del dipinto, l’orlo sinistro.Tre borchie, artisticamente lavorate e magnificamente incastonate, suggellano l’incontro dei due cordoncini con le falde di questo sfarzoso vestimento. In basso, partendo dal centro del piedistallo, si muove verso l’alto, nelle due opposte direzioni, un’enorme mezzaluna, segnata in mezzo da una michelangiolesca testa d’angelo. L’oro fino delle sacre vesti e le corone fulgenti, sul capo del Bambino e della Vergine, imprimono un tono di maestosa regalità alla solenne ieraticità dei personaggi. Alle fiaccole rudimentali e contorte che i pagani accendevano nelle feste dei Lupercalia in onore del dio Fauno, la Madre di Dio contrappone un candeliere lungo, diritto, finemente lavorato e sormontato da una candela accesa per illuminare il mondo, finalmente ridotto in soggezione. (La luna rappresenta le forze del male). La purificazione, alla quale la Madre del Salvatore non era obbligata, in virtù del suo parto verginale, passa in secondo piano. L’artista, infatti, mostra della Madonna solo il volto esile ed allungato, e del kalyptra greco sottolinea solo la funzione di velo per il capo, tralasciando di dipingere le tre stelle (una sul capo e due sulle spalle), che sono i segni tradizionali della verginità di Maria. L’oggetto principale del quadro è la presentazione di Gesù, luce del mondo; ed il lungo e ben lavorato candeliere trova la sua soddisfacente motivazione solo in questa visione teologica della venerabile icona. Testimoni di questa fede in Gesù, lumen gentium, i fedeli dalla chiesa porteranno a casa una candela benedetta. Questo sacro lume sarà acceso in caso di pericolo (per scongiurare fulmini e tempeste) ma, soprattutto, per illuminare il volto cereo dei loro congiunti nel viaggio verso l’eternità, verso la loro Presentazione al Signore.

 

S. Crescenzo martire

Incastonata nella parete laterale destra della Chiesa Madre, un’urna maestosa dalle dimensioni m. 2 x 2 x 0,76, in perfetto stile rococò, tutta indorata, custodisce il fragile e piccolo corpo di un fanciullo martire chiamato Crescenzo.
Questo nome augurale, auspicio di crescita non solo fisica, ma soprattutto spirituale e morale, si trova già nel Nuovo Testamento, esattamente al capitolo 4, versetto 10 della seconda lettera di S. Paolo a Timoteo, nella grafia greca, (Kreskes), resa in latino con Crescens ed in italiano con Crescente o Crescentino o Crescenziano. Altra variante latina è Crescentius, resa in italiano con Crescenzio o Crescenzo. (Il nostro santo fu all’inizio chiamato Crescenzio; poi, dalla seconda metà dell’Ottocento, la grafia mutò in Crescenzo, mentre è ancora chiamato “Crescenzio” nel linguaggio popolare).
Questo nome, presente nel Nuovo Testamento e presso i Padri Apostolici (S. Policarpo martire, nella sua “Lettera ai Filippesi”, scrive: “Ho dettato questa lettera a Crescente”), fu preso da molti cristiani e da molti martiri. Così abbiamo S. Crescentino (detto anche S. Crescenzio), martire, figlio di Eutimio, soldato romano, esiliato sotto Diocleziano, il quale si ritirò in solitudine presso Tiferno (l’odierna Città di Castello, in provincia di Perugia) e lì predicò il Vangelo; fu imprigionato, torturato e decapitato a Saldo il 1°giugno del 287.
Un altro S. Crescenzio fu decapitato a Roma e seppellito lungo la Via Salaria. Il suo corpo fu portato a Siena nel 1058 e ne divenne patrono minore, con festa al 5 settembre (nel Martirologio Romano è ricordato il 12 settembre). E’ stato spesso confuso col precedente che si festeggia il 1°giugno, e gli è stata attribuita la festa al 14 settembre.

S. Crescenzo martire

Una reliquia di un Crescenzo (non si sa quale) si conservava nella Chiesa Madre di Bonito, secondo quanto scrisse l’arciprete Antonio Battagliese nella Platea del 1727. L’elenco dei santi con questo nome (anche al femminile: Crescenzia) potrebbe ancora continuare; esso, anzichè creare confusione, dovrebbe insegnarci come i primi cristiani erano affascinati da questo nome beneaugurale (nomina sunt omina) da imporlo ai loro figli
A Roma, verso la fine del terzo secolo, in una famiglia in cui il Vangelo era vita vissuta ogni giorno, anche in mezzo alle persecuzioni più feroci come quella di Diocleziano, nacque il nostro S. Crescenzo. Di lui sappiamo con certezza solo queste brevi notizie che si desumono dall’iscrizione trovata sulla sua tomba:

CRESCENTIUS QUI VIXIT AN XI
MATER CUM METU POSUIT
(Crescenzio (o Crescenzo) che visse 11 anni.
La madre con trepidazione pose)

Il linguaggio scarno dell’iscrizione c’induce a pensare che essa sia tra quelle più antiche, e potrebbe risalire alla fine del terzo o al principio del quarto secolo, quando il messaggio delle lapidi era estremamente sobrio e si limitava a citare il nome del martire e la persona che aveva curato la sepoltura. Questa avvenne nell’agro Verano, nel cimitero di S. Ciriaca, la nobile matrona romana, che lì seppellì anche il corpo di S. Lorenzo Martire. Dal modo della sepoltura particolarmente curata, con iscrizione e simboli del martirio si dedurrebbe che la sua famiglia fosse distinta ed agiata. Le tombe dei poveri spesso rimanevano anonime, senza nessun segno di distinzione.Il fatto che solo lui e non la madre fosse martirizzato farebbe supporre che si trattasse di una colpa sua personale. Quale? Ogni ipotesi è buona. Certamente in quei tempi anche i fanciulli e le fanciulle erano profondamente istruiti nella fede e si nutrivano quotidianamente dell’Eucaristia. Basti pensare a S. Tarcisio, S. Pancrazio, S. Agnese a Roma, S. Agata e S. Lucia in Sicilia, S. Eulalia in Spagna. Non escluderei l’ipotesi che S. Crescenzo, come S. Tarcisioo, abbia preferito farsi uccidere, anziché profanare o far profanare l’Eucaristia, oppure si sia rifiutato di sacrificare agli idoli. Forse sarà bastato il semplice fatto di essere un cristiano per ricevere la condanna, in quanto i Cristiani erano considerati “irreligiosi in Caesares” (= empi verso gli imperatori).

Il 24 febbraio 303 Diocleziano promulgò da Nicomedia un editto con cui si proibivano le riunioni dei Cristiani, si ordinava la distruziuine delle chiese e dei libri sacri, e s’imponeva ai Cristiani l’abiura della propria fede. L’anno seguente un nuovo editto imponeva a tutti i Cristiani dell’impero di offrire pubblicamente sacrifici agli dei pagani. Negli anni 303-305 furono martirizzati i fanciulli e le fanciulle sopra menzionati; è quindi probabile che in questi stessi anni fosse martirizzato anche il nostro S. Crescenzo. Con la distruzione dei libri sacri andò perduta la maggior parte delle “Passioni dei Martiri”, cioè di quei libri che contenevano gli Atti del Martirio, gli Atti del processo ed eventuali relazioni fatte dai testimoni presenti agli interrogatori ed all’esecuzione. Per S. Crescenzo, purtroppo, non abbiamo proprio niente. Questo, però, non deve stupirci, se pensiamo che le persecuzioni durarono a lungo, che moltissimi furono i cristiani uccisi e che era umanamente impossibile ricordare tutti i martiri della fede.
Lo stesso Tacito, pur limitandosi a descrivere solo la persecuzione di Nerone, non riesce a precisare il numero dei martiri, ma parla di una “moltitudine ingente” (”ingens multitudo” Tac. Ann.XV, 44). S. Giovanni, riferendosi alla persecuzione di Domiziano, scrive nell’Apocalisse:”le anime di coloro che furono immolati per la parola di Dio”(Ap. 6, 9) e Dione Cassio, riferendosi alla stessa persecuzione, scrive che “molti” furono i nobili Cristiani messi a morte da questo imperatore. S. Eusebio, descrivendo la persecuzione in Egitto, scrive:”…migliaia di uomini, donne e bambini, disprezzando la vita presente…soffrirono ogni tipo di morte” (Hist. Eccl., VII, iv seqq.)
L’iscrizione tombale ci presenta la figura forte e tenera della madre di S. Crescenzo che, sull’esempio della Madonna che, pur nello schianto del cuore materno, stava ritta in piedi presso la croce del suo figlio, ha soltanto trepidato dinanzi al piccolo testimone di Cristo che aveva confermato col sangue il patto del battesimo. Ha raccolto quel sangue, lo ha deposto in un’ampolla e, più che alla terra, ha affidato a Dio, eredità, corona e premio dei martiri, il corpo del suo bambino. La storia di questo piccolo-grande eroe della fede è mirabilmente racchiusa nella seconda strofa dell’inno “Deus tuorum militum” lì dove si dice: ”Poenas cucurrit fortiter – et sustulit viriliter – fundensque pro Te sanguinem – aeterna dona possidet” (Traduzione: “Affrontò da forte i tormenti e li sostenne virilmente; e, avendo versato il sangue per Te, ora possiede la ricompensa eterna”.)
E nel cimitero di S. Ciriaca, questo invitto soldato di Cristo ha dormito per cinque secoli, fino a quando P. Luigi Vincenzo Cassitto, nativo di Bonito, lo ha scoperto e portato al suo paese natale.
All’inizio del 1800, ai tempi della Repubblica Partenopea, P. Cassitto, moderato e conservatore per natura ed avverso ad ogni idea rivoluzionaria, era stato costretto ad allontanarsi dal convento domenicano di Napoli e a rifugiarsi in quello dei suoi confratelli di S. Maria sopra Minerva in Roma. Qui, in piena sede apostolica vacante (Pio VI era morto il 29 agosto 1799 a Valence e Pio VII sarebbe stato eletto il 14 marzo 1800 a Venezia ed incoronato il 21 marzo per poi venire a Roma solo il 3 luglio) P. Cassitto, come lui stesso scrisse, “ebbe per impegni di personaggi illustri il piacere di ricevere in dono per la cappella privata della famiglia Cassitto il corpo di S. Crescenzo Martire”.
La lettera di concessione della Segreteria Pontificia porta la data del 17 marzo 1800, quando cioè il papa, eletto appena tre giorni prima, non era stato ancora incoronato e non era ancora venuto a Roma per ascoltare le prediche del Cassitto e poi rimunerarlo col dono di un santo martire, così come una tradizione popolare abbastanza diffusa suole narrare i fatti.

L’esumazione del corpo di S.Crescenzo avvenne verso la fine di maggio, ed il Cassitto, da testimone oculare, così descrisse la scena: ”Col cuore ormai trepidante, io seguivo le operazioni di demolizione che non durarono a lungo per le ben piccole proporzioni della cripta. Rimosso il coperchio in assai poco tempo e demolite anche a seguito di pochi minuti le quattro pareti, ecco che lo scheletro sacro del piccolo fanciullo si offre in tutta la sua breve lunghezza alla nostra pupilla già umida di pianto.
Egli è tutto disteso su un lettuccio, così come lo adagiarono le materne braccia.
Il suo corpo, dal capo insino ai piedi, è bianchissimo più del candore della neve; il capo, circondato dalla corona della vittoria, poggia sulla destra mano, mentre la sinistra stringe la palma del martirio.
Ai suoi piedi è deposto il sangue da lui versato e dalla madre raccolto con tanta cura e con tanto amore. Ormai si potrebbe dire che non è morto, ma che tranquillamente dorma.
E, sotto questa cara e santa illusione, mi accosto più da vicino per abbracciarlo e coprirlo di baci, finchè più non lo permetta l’abbondanza delle lacrime. Il corpo di S. Crescenzi è intero, e racchiuso sotto le vesti e i veli l’ intero cranio, coi denti superiori e il mento con le mandibole, il torace colla parte superiore, nè nulla vi manca nè delle scapule, nè delle clavicole, nè delle vertebre, e di tutt’altro che ne forma l’ossatura; solo tre pezzetti di costole furono situati entro di un ostensorio. Nelle braccia sono adattati gli omeri, i cubiti coi loro radj, le palme e gli articoli delle dita scarne: nelle cosce vi sono i femori, e nelle gambe le due tibie co’ loro radj, ai quali si congiungono i piedi con tutta la loro articolazione. Si fece questo santo corpicciuolo vestire con un colobio ricchissimo, come S. Eutichiano papa determinò che si vestissero i martiri nel seppellirsi, al dire di Anastasio Bibliotecario. Ha la palma nella destra in segno del suo trionfo, la corona di verde alloro in fronte per lo stesso motivo, ed è in atteggiamento di giacere nel sonno dei giusti. Tutto il disegno, e la composizione fu eseguita dal Signor Antonio Magnani chirurgo pontificio”.
Dopo la composizione, il corpo del santo fu esposto alla venerazione dei fedeli nella chiesa di S.Maria sopra Minerva durante il periodo del triduo pasquale. I fedeli accorsi numerosi a pregarlo, gridavano:”Non facciamo uscir di Roma questo santerello”.
Ma il Cassitto, eludendo le loro aspettative, fece imbarcare l’urna sul Tevere per dirigersi verso Napoli. Purtroppo, lì dove il fiume s’immette nel mare, una violenta tempesta minacciò di far sommergere la nave. Portata a prua l’urna venerabile, le acque si calmarono e si potè riprendere il viaggio. In poco meno di sei ore si giunse a Napoli e si depositò l’urna nella chiesa domenicana di S. Pietro Martire. Anche qui l’afflusso dei fedeli fu notevolissimo, tanto da ottenere dalla Corte l’ordine di non lasciar partire il corpo del Santo. Solo dopo due mesi l’abilità diplomatica e le aderenze a Corte del Cassitto riuscirono a far revocare l’editto e ad ottenere il permesso di portare a Bonito, di notte tempo, il santo fanciullo.
Giunta nel nostro paese, l’urna benedetta fu collocata nella chiesa francescana di S. Antonio e lì rimase, affinchè il popolo si preparasse, mediante una santa missione predicata, a ricevere degnamente e solennemente il santo nella Chiesa Madre.
Il 27 luglio avvenne la solenne traslazione con messa pontificale celebrata dall’abate di Apice e con un solenne panegirico recitato dallo stesso Padre Cassitto.
Il 13 luglio Federico Cassitto, a nome di suo fratello P. Luigi Vincenzo e di tutti gli altri componenti la famiglia, aveva fatto dono del corpo del Santo all’Arciconfraternita della Buona Morte. Questo gesto, di per sé nobile e generoso, lo sarebbe stato ancora di più, se non fosse stato condizionato dal rilascio dell’urna da parte dei napoletani “del Molo picciolo e convicini”, e non fosse stato accompagnato da patti e clausole in verità poco onorevoli. Per fortuna il tempo è stato galantuomo ed ha fatto giustizia di questi vincoli.
Durante il terremoto del 21 agosto 1962 la Provvidenza Divina risparmiò sia la cappella di S. Crescenzo, sia la chiesa dell’Oratorio che la ospitava. Ma successivamente la sapienza umana le distrusse entrambe.
Ora, per purificare il passato, sarebbe auspicabile almeno restituire a S. Crescenzo la cappella che aveva, affinchè si possa in essa venerarlo adeguatamente tutti i giorni dell’anno e non solamente la prima domenica di agosto.

Da “Itinerari bonitesi” di CARLO GRAZIANO

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